BUONA PASQUA 2020
Nell’augurare a tutti i nostri amici una buona Santa Pasqua, pubblichiamo il testo integrale di Bruno Manzini in cui racconta la PASQUA NELLA DIGNANO DI UN TEMPO. Un piccolo spaccato della vita dignanese di un tempo, molto semplice e per questo molto intensa: leggendo scoprirete i nomi delle sette domeniche che precedono la Pasqua, il rito del venerdì Santo, la Messa grande della domenica di Pasqua e il menu che imbandiva le tavole. Buona lettura!
PASQUA NELLA DIGNANO DI UN TEMPO
La Quaresima era stata dura come ogni anno. La campagna stava uscendo lentamente dal lungo sonno invernale, le riserve dei raccolti erano alla fine, si sentiva la carestia e c’era da aspettare fino a giugno per il grano nuovo.
Gli inverni erano freddi: vento di bora, strade deserte e spesso ghiacciate.
Gli uomini riprendevano il lavoro dei campi; gli operai del cantiere di Pola, le tabacchine e gli studenti lasciavano di buon mattino il paese per una lunga giornata di lavoro.
Eppure c’era letizia nell’aria; spuntavano le gemme sugli alberi, le giornate si erano fatte più lunghe e poi, finita la Quaresima, doveva risorgere il Signore e con lui il sole si faceva più caldo, e rinasceva la speranza.
Sapete come erano chiamate dai “nostri veci” le sette domeniche fino a Pasqua? Uta, Muta, Tananela, Pan e pisso (pesce), Lazzaro, Ulìo e Pasqua fiorìo; il significato non mi è del tutto chiaro per alcune di queste espressioni se non nel senso della mortificazione dello spirito e del corpo!
Già la quinta domenica – Lazzaro – annuncia con la resurrezione della carne umana, disfatta dalla morte, che nulla è impossibile a Dio.
L’Ulìo è la Domenica delle Palme: un altro trionfo, quello del Cristo Uomo osannato dalla folla; ed anche dalla folla di Dignano con i rami di ulivo tagliati grossi; perchè era il momento della potatura: in Duomo, a Messa grande, pareva di essere in un bosco.
Poi cominciava la Settimana Santa piena di attesa e di tristezza. Nei primi tre giorni si leggeva il “Passio” nel coro del Duomo; le pale d’altare e le insegne delle confraternite venivano ricoperte da pesanti drappi; la chiesa era spoglia e buia; risuonava ogni qualtanto di colpi di bastone calati con energia sui banchi: erano i “battiscuri” a ricordo del travaglio fisico e morale di Cristo.
Il Giovedì Santo è insieme fastoso e tragico: la lavanda dei piedi, l’ultimo incontro di Cristo con i suoi amati discepoli, con l’annunzio del tradimento, che rappresenta l’umanità che ogni giorno lo tradisce, e poi l’angoscia nell’orto e l’arrivo dei carnefici.
Il Venerdì Santo è l’ora delle tenebre; il sacrificio sulla croce è consumato. Tutto tace in paese, la gente è smarrita, le campane sono bloccate. Nell’altare dei Corpi Santi è allestito il Sepolcro; ricordo i lumini che attorniavano il corpo del Cristo, l’erbetta verde-gialla del miglio seminato in zolle di terra disposte davanti all’altare. C’erano degli “avanguardisti” in divisa che facevano la guardia al Sepolcro; erano i soldati del Cesare di allora, eravamo noi con sentimenti contrastanti di fierezza e di dubbio per il ruolo che ci facevano svolgere. Poi a tarda sera veniva la processione: per prime le Figlie di Maria in bianco-celeste che cantavano Ave, Ave, Ave Maria. Seguivano le varie confraternite, di San Francesco, del Carmine formate di donne più anziane con il velo marrone o viola, e salmodianti il Rosario, la confraternita del crocefisso, di S. Antonio, di S. Giovanni, della Madonna del Rosario e quelli del Santissimo in camice bianco e cappa rossa che portavano i grossi ceri, e poi i chierichetti ed i preti ed in chiusura l’enorme Crocefisso (che mi faceva paura) sostenuto su robusti cinturoni dai più validi del paese che si davano il cambio fino alla Madoneta e ritorno. Un lugubre canto veniva ripetuto quasi ossessivamente per tutto il tragitto: Popule meus quid feci tibi… O mio popolo, cosa ti ho fatto per avermi voluto trattare così? In che cosa ti ho contristato… Responde mihi! Era il pianto di Cristo mandato al martirio dagli uomini. La contrizione quaresimale aveva così raggiunto il suo culmine.
Infatti al mattino del Sabato Santo l’angoscia stranamente si attenuava; una atmosfera di attesa prendeva tutti: era questione di ore. Con un rituale, che era in uso allora, le campane si scioglievano per il Gloria a mezzogiorno: tutti cercavano l’acqua per bagnarsi gli occhi: venivano tirate giù in fretta le tende degli altari, facendo ricomparire le care immagini dei Santi. Era dunque il Sabato Santo una giornata di fremente attesa, per una certezza imminente!
Nella domenica di Pasqua la felicità è tornata nel cuore degli uomini; ci si incontra festosamente e si augura la pace. Pace tra noi, pace con la terra che rifiorisce, pace con Dio che è risorto e che dà la certezza della nostra resurrezione dal peccato e dalla morte. Tutti erano scesi in piazza, e quindi in chiesa. L’abito nuovo era la regola quasi generale, e, se non l’abito, l’orologio, le scarpe, la cravatta o altro: qualcosa di nuovo che esprimesse il proposito del nostro rinnovamento.
La Messa grande era un trionfo di luce, di incenso, di canti liturgici, di magnifici cori; c’erano le autorità in due lunghe panche di fianco all’altare maggiore, quelle comunali e quelle statali con il tenente dei Carabinieri in alta uniforme. Ma erano solo comparse; il protagonista della festa era il popolo; dai più anziani che erano nel coro, alle donne salmodianti nei primi banchi, alla gioventù allegra ed irrequieta nel fondo della chiesa. Poi si usciva tutti in piazza; gli uomini si attardavano sulla “grisa”, e i giovani e le ragazze riprendevano l’eterno colloquio di occhi e di gesti di intesa tra loro; le donne erano subito corse a casa per il grande pranzo.
Giunta l’ora la piazza si faceva deserta; tutti erano alla mensa pasquale. Rispettando le tradizioni arrivavano le uova sode colorate ed il prosciutto nostrano, i gnocchi o le lasagne al sugo; l’agnello arrosto, le fugasse e le fornere (ossia le pinze e le titole) ed il moscato. Credo che questo menù, con qualche variazione, fosse disponibile in ogni famiglia (o quasi); dopotutto Pasqua veniva una volta all’anno ed era la più grande festa del paese.
Al pomeriggio, sul tardi, riprendeva il passeggio; suonava la banda in piazza; gli anziani contenti e con lo stecchino in bocca, tornavano agli usati discorsi, i ragazzi giocavano con le uova colorate. Cominciava verso sera la grande “tombola”, mentre il sole, dopo una giornata felice, tramontava gloriosamente dietro le isole Brioni.
Bruno Manzini
Da: “Cussì ierimo a Dignan”, edizioni Famiglia Dignanese, 1998